Noi che abbiamo visto Genova
“Quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che abbiamo visto Genova“. Lasciando il capoluogo ligure, è facile che torni in mente la canzone di Paolo Conte, che dà voce a quel sentimento indefinibile che si prova ogni volta che si va via dalla città della Lanterna. Una città che vive sul mare ed è fatta per il mare, e che ogni volta è capace di affascinare chi la visita. Soprattutto oggi che Genova è riuscita a tornare a nuova vita grazie al ponte San Giorgio.
A ricordare che il mare c’è e che rappresenta l’anima più profonda del capoluogo ligure, ci pensa oggi anche un nuovo museo, uno degli ultimi inaugurati in Italia. E’ il MEI, il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana, dedicato alle migrazioni degli italiani all’estero. Il MEI è ospitato all’interno della Commenda di San Giovanni di Prè, splendido complesso del XII secolo nato come ricovero per i pellegrini diretti in Terrasanta, all’epoca delle crociate, ed è posizionato proprio di fronte al Galata Museo del Mare, il più grande museo marittimo del Mediterraneo, di cui è la naturale prosecuzione. Il MEI racconta, attraverso la multimedialità, il fenomeno migratorio italiano dall’Unità d’Italia ad oggi, attraverso le storie, le foto, i diari e anche le voci degli emigranti che partivano proprio da Genova diretti verso le Americhe, l’Africa, l’Asia e l’Australia alla ricerca di un futuro migliore. Che non sempre trovavano, al termine del loro lungo viaggio in mare: la non facile ricerca di un lavoro e di una casa, il dover imparare una nuova lingua e il doversi inserire in una società diversa e ostile con gli stranieri. Il visitatore può provare le stesse emozioni, le stesse paure di un migrante del secolo scorso, ascoltando le voci straniere e sconosciute dei latifondisti americani o brasiliani, che fanno il terzo grado agli italiani.
Ma non c’è solo il mare, a Genova. Basta uscire dal MEI, risalire per i carrugi, e ci si trova dentro ad un’altra città, quella “Superba”, dei palazzi nobiliari dei Rolli di Via Garibaldi, dal 2006 riconosciuti patrimonio dell’umanità Unesco. Palazzi talmente ridondanti di bellezza che il pittore fiammingo Pietr Paul Rubens, all’inizio del ‘600, pubblica in un libro la raccolta dei disegni dei palazzi e li propone come modello abitativo per la nobiltà di tutta Europa.
Nel 2022 quei palazzi sono stati aperti al pubblico grazie a una mostra, “SuperBaRocco”, durata fino all’estate, che ha fatto scoprire alcuni dei gioielli nascosti della città. Come la Galleria Dorata, decorata agli inizi del 1700 da Lorenzo De Ferrari, tra le migliori espressioni del rococò genovese, all’interno di Palazzo Tobia Pallavicino, che oggi ospita la Camera di commercio di Genova. O come il Palazzo Reale, il più vasto complesso architettonico sei-settecentesco di Genova, dove sono esposti oltre cento dipinti dei migliori artisti genovesi del Seicento insieme a capolavori dei Bassano, Tintoretto, Luca Giordano, Anton Van Dyck, Ferdinand Voet e Guercino.
Però non si può lasciare Genova senza provare un’esperienza gastronomica ligure irripetibile. Come quella offerta al palato e agli occhi dal Mercato Orientale di Genova (via XX Settembre 75 R), a due passi dalla stazione di Genova Brignole, al cui interno, grazie a un’opera di ristrutturazione datata 2019, è ospitato un nucleo di ristoranti genovesi e multietnici tutti da provare. Manon prima di aver fatto la spesa, ed aver acquistato, tra i coloratissimi banchi dello storico mercato inaugurato nel 1899, del pesce freschissimo o delle piantine di basilico genovese DOP, per poter fare il vero pesto (perché nella ricetta originale, spiegata da Roberto Panizza, presidente dell’associazione Palatifini, ideatore del Campionato Mondiale di pesto al Mortaio e patron del ristorante Il Genovese, il basilico, prima di essere triturato con aglio e olio, deve essere colto con tutte le sue radici, e non reciso di netto).
Andare via da Zêna, come è chiamata dai genovesi, e avere voglia di ritornarci presto per continuare a scoprirla: è proprio questo il segreto della canzone di Paolo Conte.